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"Chi ha cominciato?": è davvero questa la domanda risolutiva?

        “Hai cominciato tu!”, grida un bambino. “No, sei stato tu a cominciare!”, grida in risposta l’altro. E continuano a suonarsele. Nei conflitti bellici l’atteggiamento è lo stesso. Identico. Ogni Governo, in maniera uguale e contraria, dice che a cominciare è stato l’altro.  Tuttavia, questo non è ancora il peggio. Il peggio, in quanto contribuisce alla ratifica definitiva dell’idea della ‘necessità’ della guerra e addirittura alla sua estensione [1] , si realizza quando la stessa postura dei contendenti viene assunta dalle terze parti che, come tifoserie, si schierano con uno di loro attribuendo all’altro la responsabilità di avere, appunto, “iniziato”.        Tale atteggiamento si trasmette (sia pure solo tendenzialmente) dai Governi ai media e dai media alla gente comune, che, per qualsiasi fronte parteggi, lo fa con la pretesa di stare – per ricordare una frase usata e abusata – “dalla parte giusta della Storia”, dalla parte della G...

Pasquale Pugliese analizza le parole del Censis su italiani e guerra...

 

In chiaro, ecco le considerazioni di Pasquale Pugliese: 

"Tutta colpa dei pacifisti! Gli italiani ‘impreparati alla guerra’ bacchettati dal Censis
Forse all’Istituto bisognerebbe fare un corso accelerato sulla lingua della Costituzione, specificando il significato del verbo “ripudiare” la guerra .
La recente indagine del Censis “Gli italiani e la guerra” descrive un Paese che ha una diffusa coscienza pacifista, molto più profonda delle sue classi dirigenti.
Alla domanda “come reagirebbe se l’Italia fosse coinvolta direttamente in una guerra e fosse richiamato dalle Forze armate?”
Il 39% protesterebbe in quanto pacifista e il 19% diserterebbe: solo il 16% si dichiara pronto a combattere. Inoltre, l’opinione dominante è che l’Italia debba restare fuori dai teatri di guerra: “è il ritratto di un’Italia che rifiuta la retorica bellicista”, scrive il Censis.
Se pure il 25% sostiene che “dobbiamo investire nella nostra difesa militare, anche riducendo la spesa pubblica per la sanità e la previdenza” – come prevede l’aumento delle spese militari al 5% del Pil – in dieci anni, segnala la ricerca, la spesa militare italiana è già aumentata del 46,0% in termini reali.
Nel 2024 l’Italia ha destinato alla difesa 35,6 miliardi di dollari, posizionandosi al 5° posto nella Nato in termini assoluti, alle spalle di Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Francia. Inoltre contribuiamo già in modo rilevante al suo funzionamento, coprendo l’8,5% del budget complessivo della Nato, posizionandosi al 5° posto tra i finanziatori. Sul piano delle risorse umane, inoltre, il personale militare italiano conta 171.000 unità: un contingente che ci vede preceduti da Stati Uniti, Turchia, Polonia, Francia e Germania, ma davanti a Regno Unito e Spagna.
L’aumento delle spese militari italiane si inserisce in un trend decennale di crescita globale degli armamenti, come certificato dal SIPRI, ma invece di ridurre i conflitti armati nel mondo – come vorrebbe l’obsoleto adagio che se vuoi la pace devi preparare la guerra – il Censis riconosce che essi sono proliferati: dagli 86 registrati nel 1989 siamo passati a 184 nel 2024. Parallelamente, le vittime sono cresciute in modo drammatico, aumentando da 67.346 nel 1989 a 159.837 nell’ultimo anno.
Ma insieme alle spese militari, alle guerre ed alle vittime, sono cresciuti i profitti dell’industria bellica internazionale, compresa quella italiana. Nel 2024 – è ancora il Censis a segnalarlo – l’Italia ha autorizzato esportazioni di armamenti per 7,7 miliardi di euro, in crescita del 23,6% rispetto all’anno precedente. I prodotti principali sono aeromobili, navi da guerra, missili e artiglieria pesante, e oltre il 50% degli incassi sono andati a Leonardo e Fincantieri. Dal lato delle importazioni, l’Italia ha acquistato armamenti per 744 milioni di euro, principalmente da Stati Uniti e Israele. Eppure il Censis, cinicamente, vede l’aspetto positivo della “domanda di armamenti, sostenuta dalle tensioni geopolitiche globali”, perché “potrebbe stimolare un’economia italiana che stenta a superare la crescita da zero virgola”.
Infatti, secondo il Censis – che non si limita a fotografare dati e opinioni, ma le giudica – la questione da sottolineare non è che la deterrenza armata non funzioni (se non per i profitti dell’industria bellica) perché alimenta anziché eliminare i conflitti armati, ma l’impreparazione della società italiana alla guerra: “Una impreparazione culturale e psicologica” che non riesce a concepire la guerra come ineluttabile, “ritenendo ancora” – aggiunge – “di poterla aggirare con astuzie politico-diplomatiche”. Il Censis, ignorando che il ripudio della guerra non è “un’astuzia” ma un Principio fondamentale della Costituzione, bacchetta la società italiana perché “indugia in un neutralismo autoreferenziale, inadatto a un’epoca segnata dal ritorno prepotente della politica di potenza come fattore essenziale dell’azione degli Stati a livello globale: un orizzonte minaccioso in cui la soluzione bellica diventa ordinaria”.
Il problema per il Censis non è il capovolgimento di scenario che normalizza la guerra: problematici sono gli italiani per i quali “non ci sono guerre giuste né giustificate. La nostra società opera come una fabbrica dell’innocenza che ritiene possibile preservare il territorio nazionale e quello europeo come uno spazio irriducibilmente votato alla pace, come se la guerra fosse una scelta e quindi bastasse rifiutarla per allontanarla”. Forse al Censis bisognerebbe fare un corso accelerato sulla lingua della Costituzione, specificando il significato del verbo “ripudiare”, più forte dello stesso “rifiutare”. Ma questi italiani retrogradi, “restii ad accettare il nuovo mondo, quello in cui si è visibilmente insediato lo stato di guerra, in cui il ricorso alle armi è di fatto una scelta praticabile”, continuano a pensare che la guerra sia inaccettabile: vivono in una “anestesia collettiva che ha rimosso ogni simbolo bellico”.
Una colpa, secondo il Censis, dovuta al lungo periodo di pace nel quale siamo vissuti, imbevuti di cultura pacifista.
Leggere per credere: “Il rifiuto dell’idea della guerra è il frutto del prolungato periodo di pace vissuto da diverse generazioni di italiani. L’abolizione della leva obbligatoria ne è un esempio. Aggiungiamo pure una cultura pacifista profondamente radicata nel Paese, come portato storico di tradizioni politico-ideologiche di intere generazioni, nonché dell’impegno cattolico”.
Insomma, è colpa dell’egemonia culturale pacifista.
Ma ora basta! “Ritornano dominanti politiche nazionali di potenza. E la guerra irrompe prepotentemente nella vita quotidiana, tornando a imporre la sua grammatica ed estinguendo l’eccezionalità italiana ed europea durata per ottant’anni. E torna attuale l’idea della guerra come espressione della politica con altri mezzi”. E’ il ritorno a Clausewitz, che suona la sveglia “dall’anestesia collettiva di lungo periodo per non essere percepiti come facili prede e per guadagnarsi credibilità nei consessi internazionali”.
Basta pacifismo, è ora di correre ad arruolarsi. Avanguardia pura."

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