"Due giorni fa la polizia di Gerusalemme ha cancellato la raccolta fondi per i civili di Gaza organizzata da Standing together, associazione tra le più attive e accreditate dalla galassia pacifista israelo-palestinese. Dopo essere stati convocati al commissariato distrettuale, i rappresentanti hanno ricevuto un foglio in cui, nero su bianco, erano riportate le ragioni del divieto. «Gli obiettivi, propositi e risultati potrebbero favorire Hamas», dato «il controllo del gruppo armato sul denaro in entrata nella Striscia». Più o meno gli stessi termini con cui il governo di Benjamin Netanyahu cerca di giustificare la concessione con il contagocce dei permessi per la distribuzione degli aiuti umanitari nell’enclave.
Nella stessa settimana, il ministro per la Sicurezza, il nazionalista radicale Itamar Ben-Gvir ha presentato il nuovo bando alle proteste che prevedano blocchi stradali. Come quelle imponenti di ieri sera a Tel Aviv che, ogni settimana dal 7 ottobre 2023, mettono in atto i familiari degli ostaggi. Prima soli e ora, sempre più, accompagnati da centinaia di migliaia di israeliani contrari al conflitto, all’occupazione di Gaza City e all’ossessione dell’ultradestra per un’imprecisata “vittoria totale”. L’ostruzione della circolazione costituisce una “minaccia”, ha sottolineato Ben-Gvr. Non ha torto. Per il progetto bellicista della maggioranza al potere a Tel Aviv, i cortei disarmati della società civile costituiscono un pericolo. Il più grande, probabilmente. Essi scardinano l’impalcatura ideologica su cui si basa il suo progetto politico: l’esclusione – e conseguente necessità di eliminazione - dell’altro, sintetizzato nella formula “o noi o loro”. Poiché dimostrano che non esiste un “noi” granitico e indifferenziato opposto a un “loro” altrettanto astratto e compatto. Due corpi sociali impenetrabili e incompatibili a cui non resta che eliminarsi a vicenda.
Ci sono, al contrario, esseri umani che rifiutano – per ragioni non sempre lineari – di vivere con la “spada sempre sguainata”, per parafrasare Netanyahu. E si trovano dall’una e dall’altra parte. Non solo: sono i più. In Israele e in Cisgiordania lo confermano tutti i sondaggi da mesi. Perfino nella Gaza spezzata da quasi due anni di conflitto, fame e privazioni, la gente ha avuto il coraggio di dire “basta” con le proteste anti-Hamas dell’estate nel nord dell’enclave. Un’espressione di dissenso che prosegue nonostante la repressione – selettiva, per mancanza di forze – messa in atto dal gruppo armato. Non c’è, in fondo, da sorprendersi.
«Dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza», scriveva Friedrich Hölderlin. Un verso amato e citato di frequente da Francesco. Quando, come in questo tempo, la distruzione, materiale e spirituale, incombe e, nel mondo dilaga, come ha detto di recente papa Leone, «una violenza sempre più sorda e insensibile ad ogni moto di umanità», alle persone e ai popoli per esistere non resta che resistere. Non si tratta solo di reagire all’urto e adattarsi a una nuova forma di equilibrio, quanto di mantenersi saldi, come indica la radice sanscrita “stha” da cui deriva la parola resistenza. Stare e restare per fissare con la propria presenza una linea rossa: il rifiuto della disumanità. È la scelta dei responsabili delle Chiese, cattolica e ortodossa, di Gaza City. Decisioni che interpellano le opinioni pubbliche degli altri Paesi del mondo. Come contribuire alle esistenze-resistenze delle tante donne e uomini di Israele e Palestina? L’interrogativo è complesso quanto urgente. Per provare a rispondere, forse, il primo passo è ascoltare quanto queste persone e gruppi – entrambi i popoli ne hanno formato decine, spesso insieme – ci domandano con insistenza. Innanzitutto di essere visti e non più invisibili sulla ribalta globale in cui va in scena una rappresentazione polarizzata e polarizzante della tragedia in atto.
L’importazione del conflitto sulle nostre tastiere e piazze contribuisce poco alla soluzione. Non è nemmeno necessario esportare soluzioni, più o meno innovative. Sarebbe sufficiente accompagnare i processi in corso: rilanciandone le azioni e le richieste di boicottaggio, di partecipazione ai tavoli politici, di pressione sui rispettivi governi perché ascoltino quel popolo terzo, composto dagli appartenenti ai due popoli che rifiutano ostinatamente l’equazione con il governo Netanyahu o Hamas. Un attore tutt’altro che marginale, nonostante l’asimmetria di potere, di forze, di narrative. Capace non solo di urlare slogan ma di immaginare soluzioni, compiere gesti, simbolici e pratici, creare linguaggi nuovi. Con il sostegno del mondo, i disarmati di Israele e Palestina possono farsi disarmanti."
Lucia Capuzzi, Avvenire (
da qui)
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