La nonviolenza come energia politica, oltre la contrapposizione pace/guerra
"Riconosciamolo: Tolstoj – che amo – ci ha rovinato. Con quel titolo monumentale, Guerra e Pace, ha incastonato due parole agli antipodi in un solo respiro, in un abbraccio tanto letterario quanto culturale. Ha svelato l’intimità dell’animo umano, sì, ma al prezzo di un fraintendimento che ci accompagna ancora oggi. Da allora - ovviamente non è solo Tolstoj il “responsabile” -, quasi senza accorgercene, abbiamo accettato un’idea tanto comoda quanto fuorviante: la pace è ciò che accade quando la guerra finisce.
E invece no. Se la pensiamo così la pace non accadrà mai. La pace non è l’opposto della guerra, né tantomeno il suo “dopo”. La pace non ha niente a che fare con la guerra e non sopporta questo binomio. Non è un vuoto - infatti si sa cosa è finito, ma nessuno sa cosa potrebbe iniziare - e non è una tregua. Guerra-tregua è un buon binomio. Pace non è accostabile: è come avvicinare due poli uguali di una calamita.
È una realtà piena, viva, propositiva. È soprattutto origine, non conseguenza. È un’azione con un DNA inconfondibile, non la conseguenza della fine di un’altra.
La pace ha radice assoluta nel cuore umano. È desiderio, prima ancora che programma politico. È bisogno profondo, nasce nell’intimo e ha un traboccamento sociale, non è semplice condizione esterna. È sogno, ma un sogno concreto, che si costruisce a piedi scalzi e mani nude.
Mentre avanza deve essere protetta, difesa. Ma per difenderla non serve armarsi.
Tuttavia non si tratta solo di “non combattere” o “non sparare”: si tratta di vivere lotte e conflitti permanenti - perché questa è la vita - senza fare del male, guardare l’altro, e voler stare al mondo con lui.
Immaginiamola questa pace come un filo d’oro, sottile e lucente, che non ha nulla a che fare con il ferro rugginoso e bruciato dei desolati campi di battaglia, un filo che ha un’altra origine e un’altra destinazione, che cerca altro e attimo dopo attimo attira il bene. Infatti un filo, da solo, non fa la trama. Ha bisogno di intrecciarsi con altri fili – altri valori – per diventare tessuto relazionale e sociale. La pace, da sola, resta un’idea, cresce concreta solo con molti binomi: insieme a giustizia, verità, libertà, cura dell’altro, perdono, diventa respiro comune, orizzonte condiviso, storia nuova, sorprendente, inedita. Ecco allora che la pace non comincia quando tacciono le armi, ma quando inizia a parlare la coscienza, che il rumore della guerra tenta di silenziare, ma non può zittire. Non scoppia, si semina. Non esplode, si costruisce. La pace è fatta di gesti quotidiani, di parole scelte con cura, di responsabilità collettive e personali. È una cultura permanente, non un intermezzo tra due crisi.
Tolstoj, forse, ci voleva dire proprio questo con quelle feritoie di luce aperte nei pensieri e nelle parole dei tragici personaggi travolti della guerra. Ma l’eco delle parole è strana: ci resta addosso come vuole. E così abbiamo capito e imparato che la pace arriva dopo. Ora, invece - ora! dopo la tregua - è tempo di riscrivere questa narrazione falsificante. Per farlo occorrono parole e gesti d’oro, quelli che conosciamo e hanno radicalmente cambiato il corso della storia.
Ce lo aveva ricordato, da poeta, Gianni Rodari, scrivendo “Un arcobaleno senza tempesta / questa sì che sarebbe una festa. / Sarebbe una festa per tutta la terra / fare la pace prima della guerra”. Sui campi di battaglia, dove la tregua introduce il silenzio della guerra e la conta dei morti, la pace può rispuntare tra ferraglie e sangue solo come quel filo d’oro mai interrotto che nasce nella coscienza, originario, inattaccabile, totalmente altro, che porta parole e gesti che, abbandonando la logica della forza, dissolvono l’odio e introducono tempi radicalmente nuovi. Sono parole e gesti altri che si possono riconoscere subito. Li hanno depositati nelle nostre coscienze sonnambule eroi senza nome e grandi personalità.
Gandhi, rivolgendosi ai suoi 78 seguaci prima di iniziare la marcia del sale che mutò per sempre un intero continente, pronunciò parole inossidabili: «Ognuno di voi deve agire come se tutta la responsabilità della nazione fosse sulle sue spalle. Nessuno può essere violento. Nessuno deve cedere alla paura. Questa è una marcia non per odio, ma per verità». E Martin Luter King, alla testa di una impensabile azione per i diritti civili dei neri d’America, ripeteva: «La nonviolenza non è passività. È una forza morale più potente della violenza». Ma anche Nelson Mandela, l’11 febbraio 1990, dopo 27 anni di reclusione, uscito da qualche ora dal carcere, pronuncia parole che cambiano la storia: «Ho combattuto contro il dominio bianco, e ho combattuto contro il dominio nero. Ho desiderato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità». Ma, senza andare in altri continenti, anche la nostra Europa - 80 anni di pace mai visti nella storia dell’umanità - nasce nella concretezza di una scelta maturata nelle coscienze di alcuni proprio durante la seconda guerra mondiale e annunciata dalla dichiarazione di Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, il 9 maggio 1950, con cui la Francia propose alla Germania una cooperazione pacifica sulla produzione di carbone e acciaio – le due risorse usate per fare la guerra – per impedire che si potesse fare guerra di nuovo: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creativi all’altezza dei pericoli che la minacciano. […] La solidarietà di produzione che verrà così instaurata renderà una guerra tra la Francia e la Germania non solo impensabile, ma materialmente impossibile”.
Ricordiamole queste parole e mettiamole sullo sfondo delle immagini e delle parole che ascoltiamo oggi (o domani). Diciamolo con forza che la pace non è il contrario della guerra, ma un’altra cosa. Parole altre, gesti altri, scelte altre. Una lingua che dobbiamo conoscere per riconoscerla quando è usata o per cercarla quando viene negata. Un’altra storia. Una storia che si può – e si deve – vivere fin da subito. Dire pace, da sola, può non significare niente."
Franco Vaccari, da Avvenire, 9 novembre 2025

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